La foresta più umida del mondo si trova in India
Sono sul ciglio della strada a fare autostop e alla prima auto già vengo caricato: un furgone sbullonato mi lascia in un villaggio di dieci anime, qui una ripida discesa che mi conduce nel cuore della giungla, una vera immersione nella natura selvaggia. Il mio cervello riceve fortissimi impulsi di gioia mentre vedo aumentare in maniera smisurata il numero di farfalle, sono grandi almeno quanto il palmo della mia mano. Ci sono orchidee dai mille colori e funghi dalle forme che non avevo mai visto prima, le rocce sono coperte da un velo di muschio peloso e io continuo a scendere sempre di più mentre ciò che mi circonda si trasforma passo dopo passo, come un LSD imbevuto d’acido che libera il suo effetto con il passare dei secondi. Mi ritrovo circondato da liane e radici gigantesche, gli intrecci hanno creato sculture naturali ridisegnando l'intera foresta, tutta opera da Madre Natura; attraverso la valle camminando sui ponti naturali e scopro sette cascate eleganti come la criniera di un cavallo: la tribù della giungla le chiamano le “Sette Sorelle”. La leggenda racconta di una donna che si è lanciata dal punto più alto dopo aver scoperto che il marito le aveva dato in pasto la figlia: era un peso sostenerla e l’ha cucinata mescolandola con il riso, aveva dimenticato due dita e la moglie le aveva notate. Che storia macabra.Dopo aver esplorato la zona posiziono la mia tenda poco distante da una cascata, c’è un cimitero abbandonato con poche tombe abbracciate dal verde. Mi libero dei miei indumenti ormai ridotti a stracci e corro a rinfrescarmi stuprato da una bellissima sensazione, sono libero da ogni catena, sono una sola cosa con la natura.
È il momento dell’alba ed io sono già sveglio, pronto a godermi questo paradiso selvaggio. I colori sono meravigliosi, il profumo della rugiada è avvolgente. Il concerto della giungla risuona l’armonia più bella che le mie orecchie abbiano mai ascoltato, fino a quando una figura rompe questo mio stato di trance: ha un machete poggiato sulla spalla per facilitarne il trasporto, il colore della pelle è scuro, i tratti antenati sono incredibili, ho la sensazione di aver appena visto un uomo primitivo vestito di stracci moderni. Mi avvicino portandomi le mani al petto in segno di pace, accenno un sorriso e lo saluto: ≪namasté≫.
Resta sorpreso vedendo la mia tenda nel mezzo della giungla, sorride ricambiando il saluto ma non conosco la sua lingua, non l’ho mai sentita prima. Riusciamo a comunicare con il linguaggio del corpo traducendo le espressioni e aiutandoci con i gesti, lo invito a provare dei fiori di marijuana che a quanto pare non conosce, ma che sembra apprezzare. Mi ringrazia con un sorriso mentre gli preparo una pietra su cui farlo accomodare, gli offro il massimo dell’accoglienza all’esterno della mia tenda che sembra davvero incuriosirlo, ne accarezza il tessuto e scruta ogni angolo. Non aveva mai visto prima una tenda da campeggio. Gli chiedo il suo machete per tagliare la legna secca che ho messo da parte, ma scoppia in una risata vedendomi alle prese con i rami. Mi toglie la lama affilata dalle mani e in poche mosse tutta la legna è in mille pezzi, pronta ed ordinati per quando il buio calerà.
Questa è la sua vita, tutte le mattine si alza e vaga per la giungla alla ricerca di cibo e legna per la sua famiglia che vive a meno di un’ora da qui, in un piccolo villaggio di poche anime.
Comincia così quest’amicizia tra me e Hilarius, un selvaggio di questa giungla.